Testo critico di Renato Barilli

“Iler Melioli”
Retrospettiva ai Chiostri di S. Domenico, Comune di Reggio Emilia
2005

L’opera che Iler Melioli viene elaborando da circa vent’anni a questa parte si iscrive in una specie di  minimalismo, a patto di prendere questo termine in senso lato, quasi alla lettera, e senza un riferimento preciso al movimento statunitense condotto da Bob Morris e compagni, cui peraltro si deve l’averne offerto la versione, per così dire, più ufficiale e rigorosa. Ma un qualche minimalismo scatta immancabilmente quando si voglia reagire a una fase precedente di abbuffata eccessiva, di tuffo nel pittoresco, nel colorismo più trito e sfacciato. Sotto questo aspetto proprio l’arte italiana ha creato un minimalismo efficace  quanto obbligatorio sulla linea di passaggio dagli anni Cinquanta agli anni Sessanta: i primi, dominati dall’informale, con relativa orgia di materiali sensuosi, aggressivi, scapigliati, chiamati a ritrovare un contatto con le forze primigenie della vita, dopo che queste erano state martoriate dall’immane secondo conflitto mondiale; un cui effetto catastrofico era stato anche di interrompere ogni possibile fiducia nei portati della tecnologia, visto che questa aveva dato luogo alla serie illimitata di armi sterminatrici di morte e distruzione nell’intero pianeta. A dire il vero, proprio i giovani artisti italiani di quel momento, allora poco più che trentenni, invece di anticipare i futuri minimalisti statunitensi nel termine, preferirono parlare di “azzeramento”: si sentiva il bisogno di fare piazza  pulita dalle macerie ingombranti accumulatesi nel corso del conflitto bellico, e dell’interminabile periodo postbellico che ne era seguito. Si faceva strada un opposto desiderio di ordine, di pulizia, di progettualità netta e ben scandita, così come, dopo una colica, urge far ricorso a cibi in bianco e poco conditi. Milano e Roma, come sempre avviene nei momenti migliori della cultura italiana, si diedero la mano mettendo in orbita, nel capoluogo lombardo, i casi di Castellani, Bonalumi
Agnetti, Scheggi, e un po’ a latere, Alviani, sovrastati, tutti, dall’azione debordante, incontenibile, di Piero Manzoni. Roma rispondeva con Lo Savio, Uncini, Carrino, ma anche con i monocromi di Schifano. Infatti, un tratto relativamente acerbo e di sopravvivente ambiguità, in quella situazione nostrana di azzeramento, se proprio la vogliamo confrontare con la successiva e più matura casistica del minimalismo statunitense, stava in una qualche incertezza se ricorrere ancora alle due dimensioni della superficie, rasentando qualche effetto di pittura, o se invece affrontare già in pieno un discorso tridimensionale, di forme pienamente autonome nello spazio.
Con un salto di un ventennio circa ci si può portare verso la metà degli anni Ottanta, proprio quando il nostro Melioli comincia il suo cammino, per trovarvi appunto un neominimalismo, sempre nell’accezione larga e impregiudicata, o pressoché letterale, secondo cui qui faccio ricorso a una parola del genere. Cos’era successo nel frattempo? Che l’impostazione stabilita dal minimalismo ufficiale, di Bob Morris, Donald Judd, Dan Flavin, Carl Andre, Sol Le Witt, aveva riportato una vittoria piena, provocando la cosiddetta “morte dell’arte”, ovvero l’abbandono quasi totale della pittura di superficie; con parecchi esiti concomitanti, per cui l’invasione spaziale si era andata allargando, il che aveva implicato anche un alleggerimento dei materiali usati, non più necessariamente fisici, grevi, consistenti, ma pronti anche a invadere le frontiere del virtuale, a incontrare insomma un processo di smaterializzazione. Era nata l’arte cosiddetta “concettuale”, fin troppo diffusa, eterea, perfino evanescente, il che non poteva mancare di far partire una reazione di segno opposto. Se c’è una mossa strategica che abbiamo ben imparato, nel gioco delle tendenze, è proprio questa legge di oscillazioni pendolari  del gusto, volte a correggere periodicamente gli eccessi precedenti con un improvviso ricorso ad antidoti. A partire dalla metà dei Settanta si era avuto un fragoroso, tumultuoso ritorno al pittoricismo e a schemi barbarici di figurazione, il che, fra l’altro, nel nostro paese aveva fatto nascere la transavanguardia, a braccetto con i Nuovi Selvaggi tedeschi. Da qui, appunto verso la metà degli Ottanta, la necessità di sottoporre il corpo della ricerca artistica a una nuova inevitabile dieta, con la necessità di far rientrare in scena un  neo-minimalismo, un po’ come, nelle piste della Formula 1, non appena si crea un groviglio di vetture, è necessario “azzerare” il circuito facendovi circolare la safety-car. Non per nulla negli appunti teorici, parchi ma esatti, che Melioli accompagna alla sua produzione diretta compare un esplicito rifiuto del clima della “citazione”, che era stato l’alibi sotto la cui ala quel ritorno al pittoricismo e al figurativo aveva tentato di giustificarsi. Scattarono dunque, allora, a metà degli Ottanta, nei vari paesi più qualificati sul fronte della ricerca artistica, nuovi impulsi ad azzerare, a comporre in un clima di esasperata economia, con materiali neutri, acromi, pronti a sacrificare, davanti alle attrattive del volume, ogni compiacimento di pelle, di testura. Credo di aver riassunto molto bene quello stato di neo-minimalismo quando, nel ’91, ho organizzato uno dei miei soliti spaccati internazionali distribuiti in varie sedi della nostra Regione, Anninovanta. E vi si potevano ammirare appunto i vari Peter Halley, John Armleder, Günther Förg, assieme a tanti altri campioni di quella che allora si disse anche la New Geo, il ritorno alla castità di forme suggerite da un buon manuale di geometria euclidea. E non a caso Melioli figurava in quella schiera, assieme ad altri italiani quali Arienti, Cavenago, De Paolis, Di Palma ecc.
Ma abbiamo anche imparato che questi “ritorni”, ovvero queste oscillazioni del pendolo, a differenza dell’aggeggio meccanico da cui pure il fenomeno trae la denominazione, non si verificano mai nello stesso modo, ne verrebbe un effetto intollerabile di noia, di piétinement sur place. Ovvero, per dirla in termini ancora per un momento di ordine fisico, è proprio come succede col pendolo di Foucault, che la terra nel frattempo ruota, e dunque le oscillazioni successive tracciano i loro segni non più sui solchi anteriori, ma su un terreno vergine, non ancora scalfito, ovvero, la storia non si ripete tale e quale, i “ritorni” non mancano di trarre qualche profitto dai casi contro cui pure pretendono di reagire. La nostra intera vicenda si può anche riportare allo scontro dialettico tra l’hard, che è il principio direttivo di questi vari minimalismi di cui sto ragionando, e il soft proprio di schemi, motivi, forme attinenti alla famiglia dei fenomeni vitalistici, non racchiudibili quindi in modo agevole entro linee schematiche. Ebbene, la nuova fase hard, ovvero il neo-minimalismo cui Melioli partecipa per intima propensione, non manca di strizzare l’occhio al principio avverso, o in altre parole ama iniettarsi qualche goccia di vitalismo, tentando di innestare il codice genetico, se non degli animali, almeno dei vegetali, entro la grammatica altrimenti assai scarsa di combinazione che regge l’universo dei corpi inorganici, delle rocce, dei cristalli. In termini di geometria, è come se il buon manuale classico imposto più di due millenni fa da Euclide strizzasse l’occhio a un ben più recente trattato di matematica dei frattali. I meccanismi di Melioli, pur sobri, schietti, essenziali, non vogliono cedere interamente il campo delle variazioni, degli accidenti, delle intermittenze al mondo opposto della vita organica, ma cercano di reggere una sfida, seppure a modo loro, senza cioè tradire, d’altra parte, un codice di rigore meccanico, quasi si vorrebbe dire un codice d’onore di sapore militaresco, rendendo omaggio fino in fondo a un gusto per forme lucide e pulite.
Se si vuole, conosciamo anche nella vita pratica tanti casi di ibridazioni del genere: si pensi alle cosiddette figure di un esercizio ginnico, che in genere impongono che le braccia, le gambe, l’intero apparato corporeo tentino di cancellare la sinuosità dei muscoli comportandosi come se quelle parti anatomiche si mutassero in sbarre metalliche. Per un momento il corpo vivente sembra vergognarsi delle sue movenze fin troppo flesse e articolate, e conformarsi invece il più possibile all’universo dei robot, dei manichini, oggi si direbbe dei cyborg. Si parlava prima di un codice d’onore quasi di sapore militaresco, e infatti come dimenticare in proposito che una simile necessità di adottare mosse dure simil-meccaniche è d’obbligo per chi appartiene a qualche corpo militarizzato, sul tipo dei vigili urbani intenti a regolare il traffico nelle vie della città? Ebbene, le sbarre, le putrelle, i giunti di Melioli si ispirano a esercizi ginnici di questa natura, aprono braccia, tracciano quel tipo di articolazioni che si dicono, così significativamente, “a gomito”. Col che il nostro artista riesce perfino a rasentare un po’ di quella “citazione” da cui pure si dichiara così lontano. Infatti, questi suoi obelischi bloccati nel rigore più stretto si concedono qualche cauta scioltezza degna di totem, di simulacri, di statue divine, di quelle che si ergono alte su qualche sacro monte, stagliandosi contro la chiarezza del cielo.
Non dimentichiamo che un campo straordinario in cui si dispiegano balletti ginnici di questa specie, ma non più eseguiti direttamente a corpo libero, bensì compendiati in schemi simbolici e affidati a qualche superficie compiacente, ci è fornito dalla scrittura. L’uomo, in questo caso, adotta un numero limitato di mosse stilizzate e le viene articolando, sulla pagina, per emanare attorno a sé strati di significazione. E sappiamo bene che proprio in questo esercizio fondamentale siamo chiamati a scegliere, di nuovo, tra una conduzione di specie hard e una opposta di specie soft. La scrittura, infatti, si può eseguire o con tracciati maiuscoli, a stampatello, usando per esempio i cosiddetti caratteri “a bastone”, nel qual caso siamo assai vicini alla morfologia minimalista così cara al nostro Melioli; o viceversa si può adottare una scrittura corsiva, volta a inanellare curve, ghirigori, occhielli, a farsi addirittura esile e tremante. Se poi torniamo alla casistica del primo tipo, essa risulta pronta ad abbandonare lo stato inerte della pagina per assumere un forte spessore tridimensionale, fino a costituirsi in geroglifici monumentali, capaci di auto reggersi. Così accade molto spesso che le sbarre, le verghe metalliche di Melioli sembrano lanciare nello spazio dei messaggi arcani, di cui non conosciamo ancora bene l’alfabeto, tanto che non giungiamo a capire se si tratti di scritture misteriose abbandonate alle proprie spalle da popolazioni arcaiche di cui si è persa conoscenza; o se invece i marziani siano sbarcati sulla terra, e poi ripartiti, ma lasciandosi dietro quei motti imperiosi, d’altronde indecifrabili, cosicché non sapremo mai se essi esprimano minacce o profferte di pace e di amicizia. Ma avvertiamo di sicuro che in quei tracciati labirintici si compie uno sforzo immane verso la comunicazione, anche se con lingua volutamente impacciata, ferma a pronunce enfatiche, reboanti, come se un nuovo Dio si fosse manifestato a un nuovo Mosè per ridettare le tavole della legge.
Ma c’è di più e di meglio, su questa strada di seducenti ibridazioni tra lo hard e il soft, come già si è accennato sopra. Infatti ho già detto che Melioli inocula entro il rigido DNA dell’inorganico qualche embrione più proprio del mondo organico vegetale. Succede allora che i suoi bastoni, i suoi monoliti metallici non possono evitare di biforcarsi, di ramificarsi, sono cioè costretti ad adottare, quasi loro malgrado, tutte le possibilità dell’arborescenza. Almeno in un’opera il nostro artista ricorre a un titolo quanto mai significativo parlando di “alberazione”: ecco la parola magica, i suoi duri bastoni euclidei sono costretti ad assumere a un tratto il ben diverso codice dell’”alberazione”, in cui sta il principio stesso della vita nel suo primo enunciarsi. Sembra quasi il riproporsi del miracolo attraverso cui Giuseppe venne designato al suo alto e misterioso ruolo di consorte di Maria e di padre putativo di Gesù, proprio per il fatto che un ramo secco da lui portato emise all’improvviso una germinazione impensata. Allo stesso modo Melioli fa “gettare”, germogliare, fogliare la sua foresta di alberi e rami rettilinei, di sbarre inflessibili, altrimenti morte, inanimate.
E non abbiamo ancora finito, nell’esame di queste così allettanti possibilità di ibridazione conquistate da Melioli per la sua arte. Infatti, fin qui abbiamo messo a confronto, e tentato di portare a sposalizio reciproco, due regni del mondo naturale, quello dell’inorganico, delle formazioni geologico-metalliche, e quello organico, la biosfera, almeno a cominciare dalle sue manifestazioni più semplici affidate ai vegetali. Ma sappiamo bene che in  mezzo sta un terzo regno, quello delle energie elettriche, inanimate, se si vuole, come quello dell’inorganico, ma d’altra parte dominato da schemi aperti, flessi, arborescenti, assai più prossimi alle proprietà della biosfera. Ebbene, c’è una via regia secondo cui le sbarre, le verghe metalliche dovunque e comunque siano confezionate riescono a esprimere energia, e dunque a stabilire imprevisti rapporti di continuità con l’elettrosfera. Ciò avviene secondo leggi che ci vengono enunciate da qualsivoglia manuale di fisica. Sappiamo bene che appunto gli elementi ridotti di spessore, rettilinei, protesi in lunghezza risultano assai adatti a cogliere l’energia elettrica aleggiante nello spazio, a convogliarla verso le loro punte, e da qui a irradiarla nell’etere. Se insomma quelle verghe si assottigliano, pervengono alla natura degli aghi, delle punte, che come giavellotti sparano energia nello spazio; o al contrario la catturano, comportandosi in pratica come dei parafulmini. Questi poteri, di una scienza che sfiora la magia, gravano sull’intera famiglia dei monoliti elaborati da Melioli. Col che, si noti, egli ristabilisce buoni rapporti di contiguità rispetto ad artisti e fenomeni che appartengono al ramo principale della famiglia minimalista. È ben noto alla critica che il minimalismo di Morris continua nella land art di Walter De Maria, nel quale si trova appunto uno strenuo cultore di ogni risorsa insita nei tratti rettilinei prolungati. Una delle più note realizzazioni di De Maria è il Letto di spine, una sorta di campo minato costituito da centinaia di sbarre, così acuminate nelle loro punte da ferire un qualche imprudente visitatore che osasse sfiorarle, tanto che prima della visita a una simile installazione si richiede la firma di un documento di piena accettazione del rischio. Quel Letto di spine diviene anche uno sbarramento di parafulmini, il che però ci porta anche a ricordare che questi ultimi, quando scoppiano, rigano il cielo con arborescenze del tutto consone alle indicazioni della matematica dei frattali.
Quando si raggiungono le dimensioni in cui si svolge la land art di De Maria siamo ormai fuori dai confini tra le due e le tre dimensioni, ci muoviamo in un campo multidimensionale che, se vogliamo, ammette di nuovo certi esiti quasi esclusivamente grafici: in fondo, le bellissime arborescenze disegnate dai lampi sono quasi un superbo disegno tracciato in cielo da una popolazione di giganti, di dei dell’Olimpo. Per questa via ci è possibile volgerci a considerare anche la consistente opera bidimensionale realizzata da Melioli, senza che ciò significhi, da parte del nostro artista, un voler concedere troppo a un universo fondato sui tradizionali pittoricismi ed edonismi cromatici. Tanto per cominciare, infatti, nelle sue opere su carta i colori sono quanto mai freddi, fondati sul ricorso a certi azzurri che non si può mancare di definire metallici, o a certi gialli che evocano la luce elettrica o al neon. Ma soprattutto, è degno di nota che le sagome alquanto tradizionali incastonate in questi fogli, e rispondenti alla vecchia geometria euclidea, sul tipo dei quadrati o dei rettangoli, ci appaiono avvolte in strani filamenti: come se fossero placche metalliche di supporto, che devono servire solo per fornire un piano d’appoggio a dei circuiti stesi, diramati a catturare-irradiare energie imponderabili, invisibili, smaterializzate. In fondo, la “pittura” di Melioli non è certo un passo indietro, verso traguardi più tranquilli e sicuri, ma piuttosto un passo avanti, a inquietare nuove dimensioni dello spazio, della materia, del pensiero.