Conversazione con l’artista, di Maria Yvonne Pugliese

Conversazione con l’artista

In occasione della mostra
“Iler Melioli – Res Extensa”
Yvonneartecontemporanea
Palazzo Iseppo da Porto, Vicenza
dal 1 dicembre 2016 al 22 gennaio 2017

Catalogo acquistabile QUI

M.Y.P Il tuo esordio nell’arte è avvenuto nei primi anni ’80, nel momento in cui in Italia assumeva rilievo un modello citazionista, un ritorno della pittura iconica concepita nello spazio concluso del quadro. Come hai vissuto in quegli anni?

I.M. Ho vissuto all’interno di quel clima mantenendo sempre viva una mia lucida estraneità. L’accento posto sulla “disseminazione” e sul “nomadismo” poneva in evidenza la soggettività decentrata nei diversi punti della fitta rete di relazioni che costituivano il campo culturale e sociale e riportava tutto sotto il segno implosivo di un ritorno alla tradizione riciclata nelle vesti del regionalismo, del citazionismo, dello storicismo, dell’eclettismo, e un recupero delle processualità tecniche più tradizionali nell’arte.

In quel periodo  guardavo con sospetto a quella fascinazione del passato contrapponendo ad essa una pratica dell’arte intesa come “radicamento nel presente” e come “ricerca del nuovo”, ben sapendo che una ricerca del nuovo non poteva più corrispondere al carattere che aveva avuto nei primi decenni del 900. Allora pensavo, come oggi, che il ruolo dell’artista consista nel saper inaugurare un nuovo e diverso sguardo rivolto alle cose attraverso atti di decostruzione e rifondazione del linguaggio. Il mio lavoro di ricerca linguistica, escludendo la rappresentazione, e guardando alle strutture significanti dell’opera d’arte, si poneva in controtendenza rispetto al clima dei primi anni ’80. In quel periodo avevo intrapreso un rapporto dialogico a distanza con Filiberto Menna, un legame di amicizia con Corrado Costa (poeta del gruppo 63) e con Severo Sarduy (poeta, scrittore e critico d’arte legato alla cerchia di R. Bartes) che  ebbe occasione di scrivere alcune belle pagine sul mio lavoro pubblicate nel catalogo della mia prima mostra del 1985 promossa dai Civici Musei di Reggio Emilia.

M.Y.P. La tua produzione di quel periodo, che aveva assunto il carattere di un vero e proprio stato nascente, alla luce di quanto è poi emerso nella mostra Anni 90 era sinergica alle ricerche che si stavano attuando oltre oceano. Come spieghi questa corrispondenza?

I.M. Le opere cromoplastiche che stavo realizzando in quel periodo nascevano da un mio “sguardo a distanza” rivolto al minimalismo americano degli anni ‘60. Il mio intento era infatti quello di decostruire  e rifondare il linguaggio messo in campo dai maestri americani. Penso che, a maggior ragione, in America gli artisti della mia generazione assumessero nei confronti della loro tradizione lo stesso mio abito mentale. Come sappiamo bene, ogni epoca presenta un carattere proprio che gli artisti assimilano e interpretano poeticamente, pertanto, non dobbiamo meravigliarci quando riscontriamo forti analogie tra  artisti che, pur non conoscendosi, hanno sviluppato poetiche simili in contesti geografici lontani uno dall’altro.

M.Y.P. Nel corso del tuo lavoro di ricerca hai sempre mantenuto aperto un rapporto con il pensiero filosofico, una relazione possibile tra il piano sensibile e quello intelligibile.

I.M. Ho sempre prestato una particolare attenzione al pensiero filosofico e al campo dell’estetica in quanto, a lato del mio ricercare, dai primi anni settanta al 2007 ho assunto la funzione di docente di storia dell’arte nel quadro della scuola secondaria superiore. Per usare due termini cari a M. Heidegger, ho assunto simultaneamente il ruolo del “facente” e quello del “salvaguardante”. Se poi esaminiamo gli sviluppi della ricerca artistica dopo il concettuale non possiamo non considerare  la necessità di un meta pensiero concernente il fare arte e un riflettere sul fare stesso. Non va poi dimenticato il fatto che all’interno del pensiero filosofico negli ultimi anni ha assunto una centralità nuova il problema del “sentire”, le forme della sensibilità e dell’affettività. Il sentire sembra avere acquisito oggi una dimensione anonima, impersonale e socializzata che l’arte e il pensiero filosofico non possono ignorare.

M.Y.P. Sulla base di quanto hai esposto sarebbe interessante capire quale rapporto esiste tra il fare e il riflettere sul fare stesso all’interno della tua ricerca.

I.M. La mia produzione artistica si regge sul principio della formatività, su di un fare che mentre fa inventa il modo di fare. L’opera non è il dato finale di un processo deducibile in tutti i suoi passaggi da un’idea a-priori ma una struttura che rivela al suo interno il suo stesso farsi. L’arte diventa costruzione dell’opera e nello stesso tempo del nuovo che l’opera, in quanto arte, non può non rappresentare rispetto ai territori del linguaggio già esplorati e conosciuti. Da questo punto di vista dobbiamo considerare centrale il problema della forma. La forma è un elemento imprescindibile in qualsiasi ambito, dal microcosmo al macrocosmo, dall’energia alla materia. Nel campo dell’arte la forma, che è il prodotto della formatività, diviene l’interfaccia che accoglie in sé il piano intelligibile del pensiero e quello sensibile della materia. Trasferendo sul piano del sensibile il pensiero e conferendo identità alla materia la forma pone in essere il linguaggio. Il fare arte pone in campo il nostro rapporto con il linguaggio. La mia ricerca, che a vario titolo è stata inclusa nell’alveo della Neo Geo (nuovo concettualismo geometrico) e del Neominimalismo, si avvale dell’utilizzo di diversi materiali provenienti dalla metallurgia e dall’alchimia industriale: tubolari inox, resine sintetiche, pigmenti acrilici e poliacrilici, laminati plastici e poliuretanici. Queste materie vengono assemblate e trasformate attraverso interventi strutturali e combinazioni che danno origine a configurazioni concernenti un processo di astrazione geometrica che lascia spazio alle interferenze intuitive dell’immaginazione. Le processualità che accompagnano il mio lavoro di ricerca permettono lo sviluppo di una relazione sempre più stretta tra pittura e scultura dove segni dinamici e planimetrie mentali collegate le une alle altre danno vita ad una totalità cromoplastica in cui convergono molteplici identità del visibile.

M.Y.P. Astrazione geometrica, principio della formatività, arte come esperienza di linguaggio: sono questi gli  aspetti che coesistono all’interno della tua ricerca.

I.M. Penso che una ricerca artistica si possa realizzare solo attraverso l’individuazione di processualità sinergiche al pensiero, alle tecniche e alle materie che di volta in volta entrano in campo. Relativamente all’astrazione geometrica mi corre l’obbligo di sottolineare il diverso valore che questa ha assunto nel quadro della cultura europea e in quello della cultura americana. In Europa l’astrazione geometrica si è sviluppata attraverso percorsi che dal momento dell’analisi giungono a quello della sintesi, dell’astrazione, o da concretizzazioni concettuali di forme che hanno esaltato un precipuo simbolismo della geometria che si interroga sulla sua intrinseca natura linguistica generando una sorta di atemporale platonismo della forma. Ora, negli Stati Uniti è diverso il rapporto tra concetto e oggetto; se in Europa il concetto sovrasta l’oggetto, negli U.S.A. è vero il contrario. Se pensiamo ad esempio a P. Halley (mio coetaneo) vediamo che le sue celle, i suoi condotti, ci riportano alla memoria compartimenti muniti di cavi, di tubature che costituiscono le strutture  sotto traccia di ambienti in cui la gente vive e lavora, sono il risultato di un processo che, pur mantenendo una sua algida definizione apre verso una ricreata riconoscibilità dell’oggetto. Per questo motivo l’astrazione geometrica in America non è atemporale, come avviene in Europa, ma si cala nel presente.

M.Y.P. Nella tua recente produzione assume rilievo l’utilizzo del colore, delle pigmentazioni a zona (che tu definisci temperature) che interessano sia l’ambito bidimensionale della pittura, sia quello tridimensionale dei tuoi assemblati. Rimane nella tua odierna produzione solo una labile memoria dell’utilizzo dell’acciaio a specchio che nei decenni precedenti aveva connotato gli sviluppi della tua ricerca.

I.M. Il profilo identitario della mia produzione artistica penso che sia determinato in primo luogo  dalla forma, più precisamente da un processo di astrazione geometrica cha da origine ad una configurazione dello spazio strutturata su connessioni ortogonali ordinate. Dal 1990 ad oggi tutta la mia produzione si regge su questo principio formativo al cui interno possiamo individuare alcuni significativi sviluppi.

L’introduzione del colore all’interno della mia ricerca coincide con un recupero della pittura che ho ritenuto necessario adottare nel momento in cui bidimensione e tridimensionalità non potevano più rimanere due enti distinti, separati. Molti si meravigliano quando definisco i colori come temperature, ma, di fatto i colori sono dati da onde elettromagnetiche riflesse e non assorbite che hanno frequenze diverse: a bassa frequenza i blu e i verdi, a media i gialli e ad alta frequenza gli aranci e i rossi. Non va inoltre dimenticato che il colore è un agente sempre strutturale all’interno di una configurazione dello spazio.

M.Y.P. Parliamo ora di Res extensa: una tua esperienza creativa che ha avuto una lunga gestazione e che ha prodotto esiti decisamente sorprendenti.

I.M. Prima di parlare di questa mia personale, che grazie al tuo impegno ho potuto realizzare, desidero molto brevemente sottolineare alcuni aspetti concernenti il carattere del nostro tempo. La rivoluzione digitale, che dai primi anni ’90 ad oggi ha avuto uno sviluppo esponenziale, ha letteralmente modificato gli abiti mentali, i modelli comportamentali e l’uso degli strumenti oggi messi in campo a livello globale. Questa radicale trasformazione dei modi di vita  ha anche generato una nuova suscettibilità nervosa del sentire da parte del soggetto sempre più propenso ad aderire al “si” impersonale. Questo stato di mutazione antropologia è dovuto al centrale ruolo della comunicazione e dell’informazione, pertanto, alla percezione ordinaria del mondo si è sovrapposta una costruzione linguistica i cui enunciati assumono  valore di realtà. Alla luce di quanto ho esposto brevemente, il problema che mi si è posto davanti è stato quello di valutare quale ruolo l’arte avrebbe potuto assumere all’interno della società mass mediale. Come sai bene, entrando nel merito di questo problema ho cercato di fornire una risposta poetica quando nel 2015 ho realizzato Connections, una mia grande installazione a parete presentata all’interno di Flow, la mostra sull’arte contemporanea Italiana e Cinese che hai realizzato lo scorso anno. In apparenza, seguendo il titolo dell’opera si potrebbe pensare ad una sorta di emulazione della comunicazione, mentre guardando al sottotitolo ritagli di un pensiero visivo appare subito evidente che in opposizione alla rete mass mediale la connessione di cui parlo riguarda la rete neurale, la forma del nostro stesso pensiero.  Se ora guardiamo a Res extensa individuiamo ancora  il solito tema di sottofondo, quello legato al sistema delle connessioni che,  in questo caso, riguardano le infrastrutture che sono state materialmente predisposte nel nostro ambiente di vita per comunicare. In questo mio intervento ciò che costituisce un ulteriore sviluppo del mio linguaggio visivo investe l’intera configurazione dello spazio, mentre in Connection (un’installazione a parete che comprendeva 72 ritagli in alluminio policromo in connessione tra loro) tutto rimaneva schiacciato sul piano. Dialogando con Riccardo Caldura (che ho conosciuto durante la grande mostra che si è tenuta in Basilica lo scorso anno), abbiamo convenuto che partendo da Connection e dall’esame di mie opere precedenti si potesse estendere il campo delle mie configurazioni a tutto lo spazio, Quella prima intuizione che avevamo condiviso oggi è una realtà. L’intervento che ho realizzato all’interno della galleria istituisce di fatto un continuum tra bidimensione e tridimensionalità: i segni e le campiture cromatiche presenti all’interno dell’opera dipinta si estendono lungo le pareti e confluiscono sulle sculture ubicate all’interno dello spazio fisico, un luogo trasfigurato che avvolge lo spettatore rendendolo parte integrante di una totalità dello spazio. Le mie opere con la loro possibile estensione istituiscono un diverso rapporto con il fruitore non più inteso come semplice soggetto contemplativo ma soggetto attivo e partecipe in quanto una mia opera pittorica è concepita in modo che chiunque possa trasfigurarla in una res extensa, in un segno aperto nello spazio.