Testo critico di Renato Barilli

“OrganicoInorganico”
Mostra personale alla Yvonne Gallery di Vicenza
Testo critico di Renato Barilli
2012

La bella mostra che la Galleria Yvonne ha dedicato a Iler Melioli presenta un nutrito numero di opere in cui l’artista sviluppa e porta a esiti brillanti le sue impostazioni precedenti su cui avevo già avuto modo di soffermarmi nel lungo testo da me steso in occasione della sua retrospettiva del 2005 ospitata  agli Stalloni di Reggio Emilia. Pertanto non ritengo opportuno, su queste pagine di catalogo, ripetermi o apportare minime varianti, mi limito a fornire un florilegio dei brani più significativi con cui, in quell’occasione, avevo inquadrato da vicino il percorso del nostro artista. Tuttavia, tra le novità che certo questa sua ennesima apparizione vicentina offre in abbondanza, o diciamo meglio tra le conferme e maturazioni di valide premesse già avanzate in passato, ce n’ è una che merita un esame approfondito, sia per la sua consistenza intrinseca, sia per una prospettiva di destinazione finale che la attende. Già il titolo, Ondosauro, è molto significativo e innovativo. Ritroviamo la principale eredità che Melioli ricava da un illustre passato a lui antecedente, il Minimalismo della fine dei Sessanta, quale si esprimeva negli artisti statunitensi sul tipo di Bob Morris e Donald Judd, e contemplava il ricorso a solidi geometrici regolarissimi, cubi, prismi, parallelepipedi, oltretutto realizzati in duro metallo. Ma a compensare quelle forme già ampiamente sfruttate dalle avanguardie storiche, interveniva l’evidente spinta a invadere, ad abitare lo spazio, fino quasi a cancellare la troppa regolarità delle sagome. Del resto, che quella ostentazione di meccanomorfismo fosse eccessiva e dannosa, se ne accorse ben presto lo stesso Morris, fino a rovesciarlo nel suo esatto contrario dando il via alla fase detta dell’Anti-Form, sostituendo ai metalli  il ricorso a morbidi strati di feltro. Poi, ci fu la rivolta ben più consistente messa in atto dalle varie tendenze note come “ripetizione differente” “citazionismo, “mode rétro”, roba che interessò i nati tra il 1940 e il 1950. Ma il nostro Iler appartiene a una generazione ulteriore che intende praticare una sorta di sintesi hegeliana tra quei due estremi opposti, il troppo di rigore ad angolo retto del Minimalismo, il troppo di concessione al colorismo e all’ornamento dell’ondata successiva. Veniamo a verificare questi caratteri di superamento, o contemperamento reciproco, dei due estremi. Certamente questo dinosauro sui generis ostenta una  specie di colonna vertebrale degna appunto di un gigantesco animale preistorico, dove tuttavia le inevitabili imperfezioni della sostanza organica vivente sono riveduti e corretti in senso ingegneresco, come se fossimo in presenza di una cancellata, di un muro di sbarramento. E tuttavia, questa valenza regolarista non è confermata fino in fondo, in quanto la cresta di questa spina dorsale o cassa toracica o muro di cinta si conforma al  bellissimo ed elastico andamento di un’onda, che è un pattern assolutamente alieno all’universo dell’inorganico e dei metalli, mentre caratterizza, da un lato, le manifestazioni della vita,  tanto animale quanto vegetale, e dall’altro, l’universo oggi assolutamente dominante dell’elettromagnetismo, col suo svolgimento nell’elettronica. Non per nulla la metafora di base per caratterizzare tutto questo ambito è proprio di “onda” elettromagnetica. Si potrebbe dire dunque che in questo sauro di nuova generazione si conciliano davvero i due cicli su cui si era retta e si regge la nostra civiltà, il meccanico e l’elettronico. Qualcosa di simile si troverebbe nel maggiore architetto vivente, il catalano Calatrava, a dimostrazione che gli artisti non agiscono mai da isolati ma colgono in ogni caso uno Zeitgeist che li porta a soluzioni assai prossime.

Queste parole valgono a inquadrare la concezione in sé dell’opera di Iler, presente nella sede della mostra attraverso un bozzetto di formato ridotto. Ma evidentemente era già nello spirito del Minimalismo storico svilupparsi in grandi dimensioni, uscir fuori dallo spazio protetto delle gallerie, e lo stesso si deve ripetere per il neo-minimalismo di cui Melioli è protagonista, tanto più che all’inerzia e staticità tipiche dei prodotti metallurgici si aggiungono la fluenza e scorrevolezza che appartengono ai movimenti ondulatori. Vale più che mai in questo caso l’invito a “prendere l’onda, a fare il surf, seppure mentalmente, dato che in definitiva quest’opera intende fissarsi in un assetto definitivo, ma acquistando le giuste dimensioni e andando ad abitare lo spazio pubblico della città. Se ne prevede infatti una lunghezza di quasi otto metri e un’altezza di due. Non c’è contraddizione tra l’attuale presenza in una galleria privata, costretta ad attenersi ai formati ridotti, e un auspicabile destino di opera pubblica, chiamata ad allietare i luoghi in cui normalmente viviamo, magari sottraendoli al triste stato di “non-luoghi” cui li condanna la monotona confezione del contesto ambientale. Si delinea un fertile rapporto di sussidiarietà,  il privato dà all’artista i mezzi per sperimentare e abbozzare, ma poi dovrebbe intervenire il momento pubblico per consentire la realizzazione vera e propria a scala monumentale. Nei secoli d’oro della nostra arte la trafila era proprio questa, gli artisti venivano chiamati a lavorare per chiese e palazzi pubblici, non si vede perché oggi le amministrazioni di vario tipo non si decidano a ripercorrere le medesime strade, e dunque c’è da augurarsi che l’Ondosauro prenda fissa dimora nel luogo prescelto e che i cittadini di Vicenza lo adottino, così da reclamare che non sparisca dalla scena ma resti a imporvi il suo carattere di poderosa sintesi tra due cicli del nostro tempo.