Testo critico di Riccardo Caldura
Res Extensa,
ovvero intorno al senso del quadro-mondo.
In occasione della mostra
“Iler Melioli – Res Extensa”
Yvonneartecontemporanea
Palazzo Iseppo da Porto, Vicenza
dal 1 dicembre 2016 al 22 gennaio 2017
Catalogo acquistabile QUI
L’ipotesi che poi avrebbe assunto il titolo di Res extensa, è nata da una discussione a tre voci fatta a Vicenza, in un locale affacciato sulla Basilica palladiana. Quel che mi domandavo, pensando al lavoro di Melioli, e parlandone con lui e Yvonne Pugliese, era se un quadro potesse diventare generatore di interventi ulteriori che uscissero dai limiti del supporto e si distendessero sulle pareti e nello spazio, modificando quest’ultimo o meglio trasformandolo a partire dal quadro stesso, quasi ad avvolgere, e coinvolgere, il pubblico in un’ambiente riconfigurato.
Per rendere il senso di questa ipotesi, diventata poi, concretamente, il progetto espositivo che viene presentato nelle pagine seguenti, ne è sortito quel titolo dal sapore cartesiano: res extensa. A volte vi è una qualche immediatezza nell’elaborare un titolo, come se affiorasse una sua evidenza rispetto al lavoro artistico a cui ci si sta riferendo. Non è tanto questione di comunicazione, pur se questo aspetto non va trascurato se si intende rivolgersi al pubblico, direi piuttosto che si tratta, almeno nel momento iniziale, di un tentativo di aderenza alle potenzialità intraviste nel lavoro artistico. O meglio di aderenza a quanto vi era di già presente, in quel lavoro, ma come sotteso. Penso non vi siano titoli che tengano, né ulteriore comunicazione possibile, se nel dialogo fra le persone che stanno elaborando un progetto espositivo, la proposta non fosse avvertita come plausibile e coerente, in primis dall’artista stesso. Ed è quello che riemerge nuovamente in un secondo momento rispetto a quello iniziale della condivisione comunicativa e dell’avvio di un progetto, un secondo momento che è rappresentato per un verso dalla documentazione visiva di quel progetto medesimo, dopo la sua realizzazione – quando si torna ad osservarlo con l’attenzione necessaria ad accompagnare il lavoro di un fotografo nell’individuazione dei punti di vista e dei tagli compositivi – e, per altro verso, quando si ritorna sull’immediatezza di una denominazione, e si prova a chiarirne i presupposti, dal punto di vista, ora, della riflessione critica.
Può essere utile preliminarmente, avviando questa nuova fase, allontanarci dal commento del lavoro artistico, lo si ritroverà più avanti, per richiamare qualche passo dove il concetto di res extensa ha assunto la sua configurazione filosofica. Secondo Cartesio, nell’opera “I principi della filosofia” (parte seconda, paragrafo 4), per determinare “la natura della materia o del corpo in generale”, senza risolverla in quel che i nostri sensi percepiscono (durezza, consistenza o colore), potendo i sensi talvolta ingannarci, non resta altro che concepirla come una “sostanza estesa in lunghezza, larghezza e profondità”. Nel “Discorso sul metodo”, (Parte quarta, A.T. 36), viene esplicitamente detto essere questo il modo che hanno i Geometri di concepire il mondo, come “un corpo continuo o uno spazio indefinitamente esteso in lunghezza e larghezza, in altezza e profondità, divisibile in varie parti che potevano avere diverse forme e grandezze ed essere mosse e trasposte in tutti i modi”. Richiamare brevemente passi di una condizione dualistica del mondo (res cogitans, cioè il soggetto in quanto sostanza pensante, di contro alla res extensa, la sostanza determinata solo dalla sua estensione), ci permette di fare il punto su un aspetto, forse meno evidente, che riguarda il rapporto fra la filosofia e le arti onde individuare modalità di rappresentazione del mondo e delle cose, genericamente intese nella loro pluralità. Vi sono almeno un paio di significativi riferimenti che lo stesso Cartesio fa al modo di operare degli artisti. Già nelle prime battute, l’autore specifica quale sia l’intento che muove il suo Discours: “mostrare quali sono le vie che ho seguite e di rappresentare la mia vita come in un quadro” (A.T.4). Nella parte quinta (A.T. 42) della medesima opera il problema di una qualche relazione con la pittura, ritorna in un passo utilizzato per spiegare come egli abbia concepito il trattato “Il Mondo”, trattato che ragioni di opportunità gli impedivano allora di pubblicare e che nel Discours veniva “sommariamente” richiamato: “Era mio progetto trattarvi tutto quel che, prima di scriverlo, immaginavo di sapere circa la natura delle cose materiali. Ma, proprio come i pittori, non potendo rappresentare ugualmente bene sulla piana della tela tutte le diverse facce di un corpo solido, ne scelgono una principale da mettere in luce e, ombreggiando le altre, le fanno apparire soltanto nella misura in cui si posson vedere guardando la prima, così io (…)”. Tale richiamo al fare dei pittori può certo essere dovuto alle esigenze volutamente discorsive, e redatte in francese, lingua non colta come il latino, per chiarire ciò che gli stava a cuore, la méthode. Non per questo, però, andrebbero sottovalutati i rapporti che, fra i diversi studiosi suoi interlocutori, Cartesio aveva con Girard Desargues (“suo umilissimo servitore” si diceva Cartesio in una lettera a Marin Mersenne del 1640). A Desargues – matematico, architetto, ingegnere e geometra- si deve l’avvio degli studi di geometria proiettiva. Desargues era spinto “dal desiderio di aiutare i suoi colleghi nell’ingegneria, nella pittura e nell’architettura”, come ricorda Morris Kline nel suo classico “La matematica nel pensiero occidentale” (1976, p. 141-144). Desargues avrà una decisiva influenza sull’abilissimo incisore Abraham Bosse, che pubblicherà una serie di importanti trattati sulla prospettiva, basati sugli studi di Desargues, e concepiti per l’uso che ne potevano fare gli artigiani, gli artisti e gli architetti. D’altronde durante il periodo nel quale Cartesio prepara il Discorso, pubblicato a Leida nel 1637, la pittura olandese raggiungeva vertici qualitativi altissimi proprio nella resa della spazialità, basti pensare alle spoglie e rigorose architetture chiesastiche di un Pieter Jansz Saerendam.
Si viene profilando un particolarissimo incrocio fra le modalità di rappresentazione proprie della pittura, la riflessione sugli strumenti di analisi matematico-geometrica e l’ influenza del pensiero filosofico, incrocio che porta con sé gli elementi di quel che definiamo la nascita del pensiero moderno. Come avverte Martin Heidegger, che, in Sein und Zeit, si confronta intensamente con questi aspetti della modernità, di matrice cartesiana, legati alla determinazione del mondo come res extensa. Il mondo, inteso cartesianamente come estensione, sarà conoscibile, secondo Heidegger, nel senso di un particolare conoscere che si presenta come oggettivo: quello “fisico-matematico” (Essere e tempo, paragrafi 19-21) La centralità dell’ indagine intorno al pensiero di Cartesio in Sein und Zeit, viene ripresa dal filosofo tedesco in una conferenza del 1938: Die Zeit des Weltbildes (“L’epoca dell’immagine del mondo”) poi pubblicata nel volume degli Holzwege (“Sentieri Interrotti”, tr.it. di P.Chiodi, 1968). Secondo Heidegger, proprio risalendo alla concezione cartesiana di res cogitans e res extensa, e alle modalità della conoscenza scientifica, dunque oggettiva, che quel dualismo rendeva possibile, si poteva comprendere “il tratto fondamentale del Mondo Moderno” cioè “la conquista del mondo risolto in immagine (Bild)”. Che cosa intende Heidegger? “Con il termine ‘immagine’ – egli scrive – si intende in primo luogo la riproduzione di qualcosa. Di conseguenza l’immagine del mondo sarebbe, per così dire, una pittura dell’ente nel suo insieme”. Heidegger specifica che non si tratta solo di questo, ma soprattutto del fissarsi di un’idea nella (presunta) oggettività scientifica. Comunque sia, per l’economia di queste note, quel che interessa evidenziare è che non viene affatto meno un riferimento all’arte che era già presente in Cartesio. E in fondo la stessa concezione dell’uomo come centro privilegiato, e vertice prospettico, dei rapporti con il mondo (la res cogitans diventata, secondo Heidegger, declinazione egoica del subjectum) trasforma il mondo in una res extensa oggettivata in puri rapporti matematico-geometrici. E’ grazie al concetto di estensione, cioè alla neutralizzazione della conoscenza del mondo in parametri di matrice scientifica e oggettiva, che si può comprendere il senso di una ‘dismisura’ resa possibile dalle tecnologie, quali ricadute del conoscere scientifico. Questa condizione è data, per Heidegger, dalla estrema pervasività della scienza e delle tecnica, come se la neutralizzazione dei parametri di conoscenza del mondo avesse ormai raggiunto ogni angolo possibile del pianeta, annullando distanze e differenze. “Il gigantesco (das Riesige) avanza in una forma che sembra voler dissolverlo: con l’annullamento delle grandi distanze per mezzo dell’aeroplano, con la rappresentazione – mediante una semplice manopola radiofonica – di mondi lontani nella loro quotidianità” (p.100). La diffidenza heideggeriana verso la tecnica e la scienza, l’aver egli ricostruito, una genealogia critica del pensiero moderno risalendo a Cartesio, non lo rende per questo meno sensibile di un Walter Benjamin, pur se quest’ultimo ha un altro atteggiamento, rispetto alle modalità di rappresentazione. Benjamin comprende bene come nell’elaborazione dell’immagine del mondo, la relazione fra arte e tecnica non si risolve semplicemente facendo della prima il contraltare ‘umanistico’ della seconda, essendo fra questi due ambiti le relazioni molto più complesse. Le arti, in modo non dissimile a quanto abbiamo accennato negli anni di Cartesio, continuano intensamente nei primi decenni del Novecento ad interagire con la scienza e la tecnica, onde adeguare ai tempi e alle innovazioni, una plausibile, artistica, Weltbild. La rappresentazione dello spazio, e del mondo, passa dalla pittura alla fotografia e al film (Moholy-Nagy); l’artista non si preoccupa più della produzione della sola, singola opera, ma del suo disporsi in un ambiente che viene definito dall’artista stesso (Kiesler, El Lissitzky). L’allestimento assume una grande rilevanza perché ridefinisce l’intero contesto nel quale si collocheranno le opere, cioè il ‘quadro generale’ del loro posizionamento, considerandole come parti di un tutto, la cui strutturabilità è possibile grazie alle caratteristiche ‘estese’ dello spazio-mondo. L’opera pittorica, il quadro propriamente detto, non verrà affatto meno, semmai verrà ripensato a partire dalle sue componenti fondamentali: colori primari (cioè colori puri, colori astratti in quanto denaturalizzati) e strutture di opposizioni ortogonali. Un’arte dei ‘rapporti equivalenti’ (Mondrian) che lascia cadere ogni compito pittorico di descrizione delle apparenze della realtà per coglierne piuttosto la struttura essenziale, letteralmente il ritmo compositivo, le linee di fondo, al di là della stessa percezione sensibile, in una sottile connessione con il più ampio ritmo di una grande metropoli.
Fra la metà degli anni ’80 e poi per gli anni ’90, sempre del Novecento, sembra avvenire qualcosa di non dissimile da quello che è accaduto nel primo quarto del medesimo secolo. Una ulteriore spinta all’innovazione tecnologica ridefinisce la nostra relazione con il mondo. Sono gli anni del progressivo diffondersi del world wide web, che nella stessa sua denominazione sembra letteralmente richiamare quel senso della pervasività, dell’ampiezza smisurata, di una ‘rete’, che non è certo agli antipodi dalla griglia geometrica della res extensa cartesiana. Quel che viene definito, in ambito artistico, con l’ acronimo Neo-Geo, è una ripresa, dal punto di vista formale, di aspetti legati al minimalismo concettuale degli anni ‘60 quanto dell’astrattismo geometrico modernista. Non solo però: la relazione fra arte e mondo si trova sempre più a fare i conti, negli anni Novanta, con il web e con la rivoluzione digitale che entra prepotentemente nell’ambito della produzione delle immagini, quanto della simulazione, via digitale, della realtà. Lo avverte bene Boris Groys in un suo breve testo del 2012, dunque scritto anni dopo l’avvenuto diffondersi di internet. In apertura di Google: words beyond grammar, Groys scrive come la nostra relazione con il mondo sia ormai mediata da un motore di ricerca, motore di ricerca che non va visto solo come un potente dispositivo tecnologico prodotto dall’efficacia di un algoritmo, ma come un vero e proprio motore filosofico, a philosophical machine, elemento apicale di un lungo percorso interno al pensiero occidentale, quanto alle stesse arti. L’odierno wireless, ricorda Groys, in fondo è stato anticipato dall’immaginazione senza fili di marinettiana memoria. La potenza e la velocità del motore di ricerca permette di mettere in subitanea relazione contesti apparentemente molto diversi. Inserendo nell’apposita finestrella il termine Neo-Geo e avviando la ricerca la philosophical machine indica, in ambito artistico uno dei più recenti movimenti post, a cui abbiamo fatto reiterato riferimento, e, in ambito tecnologico, la scheda arcade, posta in commercio sul finire degli anni Ottanta e primi anni Novanta, scheda che ha reso possibile la fruizione videoludica casalinga.
Il lavoro di Iler Melioli, nelle diverse analisi già proposte dalla critica (ricordo almeno Renato Barilli, Claudio Cerritelli), e dalle stesse dichiarazioni dell’artista offerte in interviste e testi, si colloca entro l’ambito del Neominimalismo (o, appunto, Neo-Geo, nuovo astrattismo geometrico di ascendenza concettuale). I riferimenti al contesto americano (in particolare Peter Halley) sono già stati proposti (da Barilli, dallo stesso Melioli), ma considerando che il movimento evidenzia comunque una sua dimensione marcatamente internazionale, non limitata generazionalmente, le figure da accostare a Melioli, potrebbero anche essere altre, forse meno scontate. Penso ad artisti con i quali mi sono trovato a collaborare in passato: Christian Eckhart, Jon Groom, Julia Anna Mangold, Esther Stocker. Ma al di là della suggestione dei rimandi possibili, è necessario compiere un percorso di avvicinamento, entrando maggiormente nel merito della ricerca dell’artista di Reggio Emilia. In particolare per comprendere cosa avvenga con la proposta progettuale realizzata nello spazio, ex-galleria, di Yvonne Pugliese.
Iler Melioli, per Res extensa, si concentra su aspetti formali di più spiccata ascendenza geometrica, riducendo il suo alfabeto linguistico (definizione dello stesso Melioli) a componenti pittoriche emendate da qualsivoglia illusione di descrivere il mondo o la natura ‘così come si presentano’. In fondo anche lo stesso motivo dell’albero nella serie, di qualche anno fa, dei Giardini pensili, rappresentava più un segno iconico, serialmente ripetibile, che un mero richiamo naturalistico. L’operazione attuale però non si limita ad un lavoro di ulteriore riduzione formale, perché tende a concepire il quadro come un elemento espansivo, generatore di interventi parietali (in questo caso veri e propri wall paintings) e di interventi nello spazio. Il quadro, inteso come una superficie dipinta, definita dal perimetro del suo supporto, mantiene e allo stesso perde i suoi limiti, in un esercizio di mimetizzazione che tende a farlo diventare elemento di un insieme più ampio. Il quadro sembra venir assorbito nell’intervento parietale dopo aver contribuito a generarlo. Analogamente avviene con gli elementi tridimensionali, strutture che sono allo stesso tempo concepite come prolungamenti ed estensioni degli interventi parietali, oppure, al contrario possono essere viste come elementi in fase di progressivo assorbimento da parte dell’insieme dipinto. La relativa indistinzione che si viene a creare fra quadro e parete, diventa anche la relativa indistinzione fra bi- e tridimensionalità, fra superficie e struttura, a seconda dell’angolo di traguardazione dello spettatore. Quel che accade è che, rispetto al singolo elemento, cioè il quadro o la scultura/struttura propriamente detti, prevale la pervasiva ritmicità formale dell’insieme, fatta di linee ortogonali e di figure geometriche semplici, le quali danno l’impressione di ‘disporsi’ e ‘muoversi’ su piani trasparenti e parzialmente sovrapposti. Si tratta di un esito percettivo e gestaltico che era una delle componenti fondamentali, non estranee al lavoro di Melioli, dell’arte programmata (altro incrocio, questa volta nella ricerca artistica italiana, fra arte, tecnologie e appunto percezione) e della op art. L’influenza di quest’ultima è chiaramente rilevabile, tornando in ambito internazionale, osservando la produzione di una figura di riferimento per il movimento Neo-Geo, come Peter Schuyff, e il lavoro di un maestro op, Victor Vasarely.
Se concepita per sovrapposizione di piani trasparenti, la cosa estesa di Melioli si presenta come una flatlandia che ricorda le rappresentazioni, rigorosamente flat, di mappe urbane, oppure l’ubiquitario sistema dei cablaggi e delle condutture che scorrono sotto la superficie di pareti e strade, nonché la visione zenitale di una scheda madre e, infine, la stessa rete delle reti. Lo schema di fondo che emerge da questi pochi riferimenti, se ne potrebbero facilmente fare altri, mantiene comunque una prevalenza visiva ad impianto geometrico, e ben rappresenta, iconicamente, la pervasività di una idea di funzionalità quale criterio principale di ottimizzazione e di efficacia operativa di un qualsivoglia circuito e dispositivo di connessione. Non è forse senza significato che la stessa costruzione di devices ad alto contenuto tecnologico, di uso comune, – notebook, tablet, smartphone, così come gli schermi televisivi – tendano ad assumere l’esile fisicità di un foglio di carta, grazie all’avanzamento dei processi di miniaturizzazione e assottigliamento dei circuiti integrati. La presa di coscienza, da parte artistica, e nello specifico da parte di Melioli, è data dall’aver assunto questa condizione temporale, come rivisitabile attraverso la realizzazione di opere fatte a mano; testimonianze di un’ umana presenza nell’infrasottile orizzonte inorganico dei wafer al silicio.
Può essere anacronistico il mantenersi di questa manualità dell’arte nell’epoca attuale. Ma probabilmente non vi è altro modo, ora, per restituire un’ immagine del mondo, che vada oltre alla funzionalità e al primato della tecnica. La verità di un’opera d’arte, se si può ancora parlare di verità in un mondo definito dalla indifferente posizionalità di un codice binario, consisterebbe dunque nel suo essere testimonianza di una concreta operatività, che non demanda la generazione di un’immagine del mondo ad un dispositivo. Permettendo così l’affioramento di quello schema di fondo, che sta al di là dell’efficacia tecnologica di qualsivoglia circuito: il tracciare una linea fra due punti, cioè il porre in relazione, come condizione stessa dell’essere umano. Connections, direbbe Melioli, con esplicito riferimento ad una sua opera dinnanzi alla quale abbiamo cominciato a riflettere su un possibile lavoro in comune.